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L’ALTRA FACCIA DELL’ ESISTENZA UMANA
A colloquio con Peter Forgacs
A cura di Paolo Vecchi


Posso cominciare con una domanda impertinente? Nella tua biografia è scritto che sei stato cacciato dall’Accademia…

Ero membro di un gruppo di estrema sinistra, organizzavo eventi culturali, era il ‘68, per questo sono stato espulso …

Poi hai studiato disegno.

E ho lavorato come grafico.

Pensi che questa esperienza abbia influenzato il tuo modo di fare cinema?

Sostanzialmente, il mio è un tipo di approccio che mi ha portato a pensare in termini di arte, legato all’arte, che mi ha spinto verso la video-arte, a lavorare con i fotografi, con gli artisti visivi.

E la permanenza nello Studio Béla Balazs?

Era l’unico posto in cui un filmmaker indipendente potesse lavorare, a quei tempi.

Ma tu avevi in mente un cinema molto diverso rispetto ad altri membri dello Studio.

E’ vero. Già allora non provavo interesse né nei confronti del cinema narrativo, né di quello didattico. Avevo l’ambizione di proporre un’idea molto personale, fuori dagli stereotipi. La video-arte ha rappresentato per me un approccio alla musica minimale, all’arte concettuale, alla psicologia, cioè, un complesso di cose più importante delle tradizioni del cinema ungherese. In seguito, mi ha portato a tirar fuori fisicamente i film dalla spazzatura invece di andare a caccia di composizioni perfette, che in realtà sono poi imperfette. La maggior parte dei registi cerca la bellezza, la perfezione. A me interessa cosa c’è dietro la superficie della bellezza. Adesso è una tendenza molto radicata nel cinema ungherese, ma, almeno fino al 1989, era praticata solo nell’ambito dello Studio Béla Balazs. Pochissimi sono gli esempi in questa direzione, fuori da questo ambito: qualche film di Jancso o Jeles o Gothar, realizzati in altre realtà produttive, ma comunque di alto livello. La prospettiva sentimentale del cinema ungherese degli ultimi anni mi sembra una grossa menzogna. Se torni a vedere questi film, ti accorgi come in essi sia presente un doppio linguaggio, una specie di neolingua in senso orwelliano. Il linguaggio metaforico non è una scuola da seguire. Se si paragona il cinema ungherese a quello polacco o ceko dello stesso periodo, non si trova questa dimensione di metafora. Faccio un esempio per tutti, il più conosciuto, Mephisto di Istvan Szabo, che finisce per essere un film sul dilemma dell’artista comunista. Per certi versi, è un film hollywoodiano, non un cattivo film, ma è come una autobiografia di Szabo. Dunque, avevo molto più da imparare da Miklos Erdely, da Gabor Body, insomma, dall’avanguardia. Questa, per me, era la vera tradizione, anche se nascosta.

Al tuo attivo hai anche un libro, <<Petrified For East>>.

Ero stato invitato dalla Arizona School of Art. Il poeta Gyorgy Petri, il grafico Gyorgy Galantai e io avevamo in mente di fare un libro d’artista. In Arizona abbiamo visto una foresta pietrificata. Il volume è molto bello, il titolo è un gioco di parole: c’è l’Arizona , ma anche l’Esteuropa.

Tu sei molto vicino al movimento Fluxus.

Anche Mikols Erdely era un Fluxus ungherese, così come Gyula Pauer. Sono nomi poco noti, perché il regime comunista era duramente avverso all’avanguardia.

Come qualsiasi altro regime, dovunque.

L’avanguardia dà fastidio, perché pone delle domande. Io ho potuto vedere di persona quello che era stato fatto in America. L’avevo visto nei libri, ma l’impatto, ovviamente, è molto diverso, l’arte e la storia dell’arte sono due cose diverse.

Vogliamo parlare del tuo archivio?

Avevo un lavoro part-time all’Istituto di Ricerche Culturali, che mi passava uno stipendio quasi simbolico, ma che mi dava l’indipendenza. Un amico stava lavorando a un archivio cine-fotografico. C’erano la collezione del direttore della fotografia Sandor Kardos - quello di A hidember (L’uomo del ponte), il recente film di Géza Beremenyi - il cui contenuto mi ha molto ispirato, e i film di Body e Timar. Io ci ho messo i miei studi di psicologia, sociologia e storia. Abbiamo cominciato a raccogliere materiale di carattere storico-antropologico. Sei anni dopo che questa collezione era stata allestita, ebbi una borsa di studio e un po’ di soldi dal Ministero della Cultura. Era il 1988. Inizialmente non avevo intenzione di ricavarne dei film, perché mi mancavano le nozioni tecniche, sul linguaggio. Poi mi hanno dato del denaro, mi hanno dato un montatore, ho dovuto decidere cosa farne, ho cominciato a lavorarci sopra. Ora l’archivio è stato digitalizzato, e spero che tra poco sarà possibile consultarlo via Internet. Abbiamo anche fatto interviste ai parenti dei filmmakers, per costruire loro un background, con informazioni di base sulla loro storia, la loro famiglia.


Da cosa nasce l’idea della serie Privat Magyarorszag (Ungheria privata)?

E’ una sfida che mi è stata suggerita, sia pure indirettamente, dai film di Body e Timar. Body era un grande talento, capace di attraversare le cose, attribuendo loro una dimensione altra. Privat Magyarorszag l’ho pensato come un vasto affresco, un’ opportunità di andare oltre l’immagine, non solo di vedere la sua superficie. Allineando una storia familiare dopo l’altra, diventava sempre più una costruzione all’interno della quale si intrecciava un dialogo: quello che si era perso in una poteva apparire nel’altra. La mia ambizione era di dare vita a una sorta di balzachiana <<Comédie Humaine>>. Ma con la novità dell’uso di un diario effimero, accidentale, non pianificato, non professionale, con le sue clandestine e rivelatrici “brutte immagini”. L’altra faccia dell’esistenza umana, l’invisibile. Che mette in mostra i cliché, gli stereotipi, le banalità. Ma anche la morte è banale, la nascità è banale. I diari cinematografici privati di filmmakers dilettanti sono per me una specie di tesoro per la connotazione, la possibile ricontestualizzazione. Se tu leggi le opere dei migliori scrittori ungheresi recenti, come Péter Nadasz, Péter Esterhazy o Pal Zavada, scopri che sono spesso basate su diari o scritture preesistenti, dunque, appunto, frutto di un lavoro di ricontestualizzazione. Rielaborare materiale cinematografico preesistente è un po’ come scrivere un romanzo postmoderno. Con tutto il rispetto per gli originali, ma con l’attribuzione di una diversa aura attraverso la tecnica del collage. E Privat Magyarorszag è una specie di romanzo familiare, ma sotto un altro aspetto è in qualche modo una seduta di psicoanalisi di gruppo, di psicoanalisi artistica del passato ungherese.

Infatti, tutti i capitoli hanno una dimensione onirica, accresciuta dalla musica.

E’ molto vero quello che dici. In tutta evidenza, portando fuori ogni parte dal contesto degli home movies, devi assegnarle una specie di nota a piè di pagina, o titolo. Devi dire: <<Questa è una tavola>>. Ma è tautologico. Noi sappiamo che questa è una tavola. Allora, perché tu ce la stai facendo vedere? Così, si procede all’attribuzione dei significati. E questo è più complesso. Penso non solo all’interpretazione dei sogni, che procede sbucciando il significato: questo è il primo, questo è il secondo… E’ come nella musica: il motivo iniziale ha una coloritura diversa rispetto a quello conclusivo. In Bibo, ad esempio, ci sono significati differenti all’inizio rispetto alla fine. Evitando un approccio tautologico, debbo lasciare il film aperto per gli investimenti e le associazioni mentali dei fruitori. Da un lato, questa ricontestualizzazione è il Fluxus. Dall’altro, è quella che Umberto Eco chiama opera aperta. C’è una sorta di beckettiano palcoscenico vuoto, dove non succede quasi nulla se non il banale quotidiano di una famiglia, con i suoi momenti felici o i suoi momenti tristi. E chiunque veda il film ha una famiglia, ha foto di famiglia. Dunque, il primo livello, di base, è quello dell’esistenza umana, dell’ordine delle cose. Dall’altro lato, c’è il disordine delle cose, perché quello che noi conosciamo è sempre il passato. Ma è un passato diverso da quello che conserviamo nella nostra mente. Così, stiamo sempre riscrivendo una biografia, ricontestualizzando. Abbiamo una storia d’amore, ci siamo io e una ragazza, siamo giovani e stiamo sorridendo. Ma oggi io guardo indietro a questo evento con amarezza: <<Quella puttana? Io e lei?>>. <<Ma va là, Peter, tu sembri felice>>. Io cerco di metanarrare il passato. Cerco di riscrivere la mia storia personale, l’immagine documenta qualcosa che sta accadendo. Ma non posso dire che questa è un’immagine triste. Però qualcuno sta commentando: <<Io non ero felice>>. Così, l’immagine deve essere presentata come un’ opera d’arte, in cui entrambe le interpretazioni possono essere giuste. Io, come autore, non voglio prendere decisioni sul passato del fruitore. In questo contesto, lascio aperto il ventaglio delle interpretazioni. Spetterà a ciascuno scavarsele fuori, assemblarle in un'unica direzione. Io mi metto in un atteggiamento di collaborazione con lo spettatore, cerco di dargli delle motivazioni, perché possa compiere un lavoro di assemblaggio secondo il proprio punto di vista. Non definire, ma lasciare aperto, come un sogno. Il mio psicoanalista mi dice : <<Peter, questo significa questo>>. Qui non va bene. Questo è un dialogo tra la mente dello spettatore e l’immagine, che si riproduce nel mio dialogo con il materiale originario.

Il materiale è manipolato attraverso montaggio, ralenty, accelerazione, still frame, voce fuori campo…

E’ un procedimento molto lungo e complesso. E’ come una specie di veglia, di bolla di inconscio. Pur essendo a me invisibile, mi indica la direzione in cui debbo andare. Mi occorre un periodo molto lungo per capire tutto il passato, per mettere in ordine tutte le cose, alla maniera di Foucault. E’ davvero un’indagine foucaultiana. Foucault è un mettere tra virgolette, l’indagine significa mettere tra virgolette. Prima di tutto, mi piace disporre il materiale nell’ordine della mia prima impressione. E’ una specie di gestalt, non posso tradurlo in parole, ma so di cosa si tratta. In un secondo momento, cerco di andare oltre il cinema, di creare, attraverso la tecnica digitale, un linguaggio minimalistico, come in una oeuvre del cinema delle origini, del muto. Terzo: il processo di ricontestualizzazione è davvero una specie di romanzo. Con pochissime eccezioni, non esiste un grande romanzo ungherese del XX secolo: Dezso Kostolanyi, in parte Sandor Marai. Non abbiamo, come i francesi, o gli inglesi, o i tedeschi, o gli italiani, dei romanzi familiari. Non abbiamo i nostri <<Buddenbrook>>, o un nostro Kafka. Kostolanyi è un genio, Marai un uomo di grande talento. Ma c’è un vuoto nella letteratura ungherese, almeno fino agli scritti di Géza Ottlik. Qualcosa è andato perso, cè stato un gap, nella letteratura e nella psicoanalisi. Questo genere, o questo mio atteggiamento, va a costituire una capace struttura, nella quale posso far confluire, integrandoli, i film, la psicoanalisi, la storia ungherese, il romanzo, l’antropologia o l’opera. E non posso dire definitivamente se quello che sto facendo è film o opera o storia, perché si tratta di una specie di vademecum che porta con sé un’alchimia. E’ una procedura alchemica. Non so come raggiungere il mio scopo, ma ci provo.

In questo procedimento alchemico, come entra la musica di Tibor Szemzo?

E’ evidente che il cinema muto, gli home movies, i film di famiglia non hanno uno sviluppo narrativo, sono senza dialoghi. Ma c’è qualcosa che è espresso attraverso le immagini, che investe il registro emozionale. Il dialogo emozionale, il dialogo dei significati, la decodificazione silenziosa delle cose. Noi decodifichiamo sempre delle situazioni, la comunicazione umana è ampiamente non verbale e questo messaggio non verbale del passato è registrato dagli home movies. Questa decodificazione, o lettura, è molto emozionale, quando noi valutiamo qualcuno o qualcosa simpatico o non simpatico mettiamo sempre in pratica un meccanismo di attrazione, o dis-attrazione, non verbale, di coinvolgimento o indifferenza, come in un’opera musicale che esprime qualcosa che va oltre la decodificazione verbale o descrittiva o analitica o logica. E tutto il genere cresce oltre la performance scenica che facciamo insieme, io e Tibor. Tra il 1983 e il 1985 ho lavorato in un ensemble di musica contemporanea, cantavo ed ero voce recitante. La mia amicizia con Tibor data da questo periodo, abbiamo fatto parecchie performance sceniche, tra il 1984 e il 1987. Abbiamo fatto una tournée in Ungheria e in Europa come duo, musica e film. Quando montavo i film, io avevo la musica come traccia. Si è trattato di una collaborazione molto autentica, perché, per trovare lo spirito dei film, è la musica che può esprimere certi registri del messaggio che sono inesprimibili a parole. Come in un sogno, con il medesimo impatto emozionale. Ovviamente, in ogni film dobbiamo affrontare diverse sfide, diversi problemi, diverse provocazioni. Ma c’è sempre lo stesso dialogo tra immagine e musica. Il ralenty, il fermo immagine, la grafica fuori testo e la musica sono tutti strumenti di un’orchestra. C’è una sorta di orchestrazione e integrazione del flusso delle immagini. Così la musica viene ad assumere un’energia molto forte.

Le partiture di Tibor Szemzo credo possano essere definite minimali. Questo tipo di musica ha radici nella cultura ungherese?

No. La musica minimale deriva da La Monte Young e da Cage, la scuola produce poi i vari Glass e Riley.

Io pensavo a Ligeti…

Si, forse, l’ultimo Ligeti, o forse ancora di più Kurtag. Ligeti è un genio vibrante, che non ha mai ripetuto quello che aveva fatto in precedenza. Io penso che la monomania di Kurtag, la monomania di Bartok, siano il miglior esempio di quello che Tibor sta facendo, pur nei limiti di un vocabolario più ridotto. Tibor dice che nei miei film non è un compositore, ma piuttosto un creatore di panorami musicali, anche se in realtà si tratta di molto di più. Non si tratta certo di musica-tappezzeria. La sua musica è essenziale come struttura, è quello che mi differenzia dai documentaristi o dai filmmakers sperimentali. Per questo mi affido sempre a lui, con qualche sporadica eccezione, come la canzone popolare trascritta da Bartok in Bibo. Ho dovuto farlo, perché quello era il periodo, la musica popolare rielaborata da Bartok possiede un forte potere evocativo.

Il tuo primo film che ho visto è stato Az orveny (Caduta libera). Qui il crescendo delle leggi razziali va di pari passo con la drammaticità della partitura musicale, affidata a voci maschili e femminili, con un procedimento che poi non ho ritrovato in altre tue opere.

Az orveny è basato sulla banalità delle vittime e sulla banalità del male. La banalità delle vittime consiste nell’ingenuità della loro speranza, nell’idea che <<questo non possa accadere a me>>. Non può accadere a me, questo era il titolo di lavorazione di Az orveny. Tutti gli home movies sono portatori di un messaggio di felicità, nonostante le leggi draconiane che stavano colpendo gli ebrei. In effetti, in questo personaggio ambiguo, Gyorgy Peto, è rappresentato il duplice punto di vista, del carnefice e della vittima, che bevono insieme latte e cioccolato. E’ un’unica situazione che mostra il paradosso dei campi di lavoro e della guerra: il tuo amico è il tuo nemico, il tuo nemico è il tuo amico. Le sequenze che mostrano una vita familiare felice, in se stesse non possono spiegare la realtà di questa famiglia. Realtà che è nei nervi, nella memoria e nella conoscenza storica. La grande sfida consisteva nel mostrare questi felici home movies girati in anni tragici e cupi, senza sovraesporre con la narrazione il fatto che lo spettatore sta guardando momenti di serenità familiare ma nello stesso tempo un dramma sta impadronendosi dell’Ungheria. Dato che non voglio spiegare o educare, uso questo contrappunto nascosto di belle voci che dicono cose terribili, di momenti felici in contrasto con il contenuto delle leggi. E’ l’ingannevole meccanismo di certe specifiche situazioni storiche. Il film ci dice che non sta succedendo niente di pericoloso. Invece sta arrivando il pericolo, sta arrivando il boia, sta arrivando l’assassino. Ma tutti si tengono attaccati all’istinto di vita, censurano l’istinto di morte. E’ un paradosso in qualche modo freudiano. Nella complessità delle microstorie di Az orveny è sempre avvertibile questo doppio punto di vista: che cosa c’è dietro la felicità, che cosa c’è dietro la tristezza. E’ come un test di Rorschach: cos’è questo, può essere un diavolo, può essere un angelo. Così, ho forzato Tibor a scrivere questo tipo di musica, ma lui non ne era contento, perché non aveva mai scritto musica in base a un testo. Ma credo abbia trovato la soluzione migliore e più bella.

E’ possibile vedere un po’ la stessa cosa in Dusi es Jeno (Dusi e Jeno), in cui, in un contesto molto meno drammatico, di quotidianità familiare lontana dalla guerra e dal razzismo, si coglie tuttavia uno sfondo di inquietudine.

E’ molto vero: Dusi es Jeno, pur senza parole, esprime questo dramma, questa tragedia.

In Az orveny si vede il grande direttore d’orchestra Ferenc Fricsay.

Il protagonista del film, Peto, era un ottimo musicista. Fricsay allora era in divisa, era il direttore dell’orchestra dell’esercito. Peto era un uomo proteiforme. Avrebbe potuto essere un Fricsay, se suo padre non fosse stato così ricco. Ma non ebbe questa forza. A volte è necessario qualcosa di più del talento. Peto fu un bambino prodigio, dava concerti a tredici anni, era uno dei migliori violinisti di Szeged. Ma gli mancò sempre quel qualcosa di extra che contribuisce a fare un grande artista come Fricsay. Questa presenza effimera proietta il film in un contesto più ampio, in tutto il caotico groviglio della vita ungherese. L’Italia e l’Ungheria hanno qualcosa in comune sotto questo punto di vista: il fascismo ungherese non fu mai così spietato, se si eccettua un ultimo breve periodo. E’ uno dei paradossi di queste due nazioni. Senza la supervisione dei nazisti, noi non siamo stati capaci di essere davvero sanguinari. Magari odiavamo i nostri nemici oltre confine, ma non siamo mai riusciti a vincere una guerra. C’è qualcosa che ci ferma, nella nostra disorganizzazione, non siamo molto bravi come tagliagole. Da noi i boia sono una bassissima percentuale, perché amiamo la vita e il buon cibo più dei tedeschi, i quali sono più versati nelle azioni criminali, quando i capi dicono che si è autorizzati a compierle. Ed è questo che intriga in Az orveny: vedere gli ufficiali ungheresi che sorridono nei loro te^te-à-te^te, l’ unità di lavori forzati ebrei ridotta a una specie di operetta, come in Italia. Per la repubblica di Salò voi avete avuto bisogno delle SS, per i nostri campi di concentramento è stato necessario che Eichmann venisse in Ungheria. Come sempre, anche qui il bianco non è mai esplicitamente bianco, il nero non è mai esplicitamente nero. E’ per questo che i miei lavori sono messaggi onirici. Aprite, capite, da dove viene, che cos’è, qual è il significato: io non voglio dirtelo, perché non ne sono capace, perché non sono un giudice.

Ho appena visto Bibo breviarium (Il breviario di Bibo). Istvan Bibo è una figura quasi sconosciuta in Italia…

E’ un po’ come Gramsci per voi. Non è affatto un marxista di sinistra, ma è stato usato di volta in volta come bandiera o come asta della bandiera. In breve, non c’è un pensatore, non c’è una tradizione che Bibo rappresenti in Ungheria. E’ come se venisse dalla luna. Perché non era marxista-leninista, era bravo ad unificare nei suoi scritti la filosofia, la psicologia, la storia, la sociologia e la lotta contro l’ingiustizia sociale e umana nello stesso tempo. Che è un modo di pensare del XX secolo molto tardo: diritti umani, diritti etnici, diritti sociali, conflitti regionali, sarebbero diventati molto importanti per un ideale europeo solo alla fine del secolo appena terminato. Prima in Ungheria non c’era stata nessuna tradizione in questo senso, e in seguito nessuno ha continuato la sua opera. Quando ho letto i suoi libri, verso la metà degli anni Settanta, ho cambiato il mio modo di pensare.

I libri di Bibo erano diffusi clandestinamente?

Erano assolutamente proibiti, perché mettevano in dubbio i cardini della costruzione ideologica del regime. L’ apparizione di Bibo nel 1956 è stata come un lampo magico e irrazionale nella storia. Perché si trattava di un livello morale che era stato chiuso a chiave o tagliato fuori. Improvvisamente, l’autorità morale era il popolo, l’autorità morale era nella rivoluzione, e non c’era nessuno con il coraggio e le idee per gestire quello che stava per accadere, eccetto lui. E lui non era un combattente, era un intellettuale. Ma le sue parole erano così liberali, aggraziate, precise, capaci di afferrare definitivamente la sostanza del messaggio. Quello del ’56 era un movimento new-leftist, di indipendenza nazionale, e, ovviamente, radical-democratico, nel senso di una nuova democrazia possibile. Il paradosso è che lui non dovette mai combattere per esprimere il suo modo di pensare. Siamo stati fortunati che non sia stato giustiziato, anche se ci arrivò molto vicino, con la sua naiveté rispetto a quanto stava accadendo. Il suo livello morale, la sua etica, sono il messaggio più alto del ’56. Ora tutti lo riconoscono come una sorta di mito. Il cinema Corvin, tra le cui pareti stiamo adesso conversando, è stato uno degli ultimi baluardi dei ribelli a Budapest, una specie di bunker dell’armata rivoluzionaria. Molti intellettuali caddero sotto la mannaia del regime instauratosi dopo il ’56. E questa lobotomia, questa completa perdita, che si tradusse nel compromesso successivo al ’56, fu espressa solo in piccola parte attraverso il samizdat, l’opposizione clandestina, per tener viva la speranza di un atteggiamento diverso. L’eroe del mio film è forse troppo intellettuale, non sono sicuro di aver risolto questo problema, ma dovevo fare così, perché, in qualche modo, questo era un debito che dovevo pagare a Bibo, per quello che ho imparato da lui. Il ’56 credo sia stata per certi versi la rivoluzione più interessante del XX secolo, perché era contro il regime comunista, ma era una rivoluzione di sinistra. E non c’era stato prima nessun momento in cui la sinistra radicale e il nazionalismo avevano potuto fondersi. Anche in Italia e in Francia è successo qualcosa del genere durante la Resistenza. E’ l’esperienza più importante che l’Ungheria abbia mai avuto. E, a quei tempi, Bibo era uno dei guardiani della luce.

Bibo ha avuto un atteggiamento di resistenza passiva nei confronti dell’esercito russo, un po’ come avrebbe fatto più tardi Dubcek.

A differenza di Dubcek, Bibo aveva un’origine non comunista. Inoltre, Dubcek non sapeva cosa stava facendo, era ingenuo, come Gorbaciov. Bibo non era ingenuo. In Ungheria, tra la fine della guerra e il colpo di stato del 1948, c’era stata la speranza di una democrazia. Una penosa transizione. Truman e Churchill decisero che noi non eravamo abbastanza maturi per la democrazia. Anche in questo senso, Privat Magyarorszag è per me uno strumento per capire che cosa è il mio Paese. Nello stesso modo, il <<Breviarium>> di Bibo rappresenta un modo etico e storico per capire il mondo che mi circonda. Questo lo dico, anche, in maniera autocritica. Le mie opere sono la scena dei miei studi, una visione dall’alto, forse solo un po’ più intellettuale o poetica, sulla mia regione, sul mio Paese, sulla nostra cultura, una sorta di musica antropologica ed etica che è diversa dalle altre.

Csermanek csokja (Il bacio di Kadar) rappresenta in qualche modo l’altra faccia della medaglia di Bibo.

E’ un film sulla pornografia della politica e dei politici. Anche l’attuale presidente degli USA è pornografico, Ashcroft è pornografico, il fondamentalismo è pornografico. Kadar era un populista mentitore, pervertito, un buffone. Non ha mai avuto un’etica, era assolutamente immorale, disposto a qualsiasi delitto per arrivare al potere e mantenerlo. Bibo è sempre etico, sempre umanista, Kadar non è mai umanista. Anche quando il suo regime può essere definito come un comunismo all’acqua di rose. Anche quando lascia che i registi facciano film come quelli di Jancso. Non credo che noi ungheresi dobbiamo essere grati a Kadar. Credo che il suo sia stato un regime cinico, anche se non ha ucciso subito Jancso. Csermanek csokja è un film sulla vita sotto il regime, con un leader incapace di parlare un ungherese corretto, preoccupato solo di comunicare nei suoi messaggi che lui era il migliore di tutti. Ti spiegava come piegare le ginocchia, come leccare il culo ai russi, ad essere cieco su queste cose. Bibo è sempre lì, con le sue ossa fragili, che dice no, questo non è vero. Bibo insegna qualcosa d’altro. Non so come tu abbia letto il film, ma temo che sia difficilmente comprensibile per un non ungherese. Perché è un film molto ungherese. Molte cose non sono evidenti per chi non è ungherese.

Tutta la tua opera è attraversata da profonde differenze tonali, sei capace di passare dal sarcasmo di Csermanek csokja all’epos di A Dunai Exodus (L’Esodo del Danubio) …

Cerco di non ripetere, e presto avrò finito, ormai ho le mani vuote, me ne tornerò alla pittura.

Hai fatto molte mostre?

Delle video-installazioni, un po’ alla Nam-June Paik. Ci sono cicli diversi nella vita. Questo è legato a una fase artigianale e filosofica, la video-installazione è più una sorta di autoriflessione, di egoisitico dreamwork. Privat Magyarorszag ha rappresentato per me una specie di missione.

Che accoglienza ha avuto la serie presso il pubblico televisivo?

Sono rimasto sorpreso dal fatto che questo tipo di narratività abbia avuto una buona audience. Bibo, ad esempio, è stato trasmesso su un canale pubblico e credo che in una Paese come il nostro avere 160.000 spettatori sia un buon risultato, se non addirittura magnifico.

Anche da noi sono passati alcuni episodi, a <<Fuori orario>>.

Sono orgoglioso che Enrico Ghezzi li abbia scelti. E’ molto interessante il fatto che la serie sia stata comperata da voi, in Germania, Francia e Olanda, ma non dagli inglesi. Credo, perché è contro il loro modo educativo, scientifico, di fare documentari. Tutto per loro deve essere spiegato. Nessun enigma, nessuna ambiguità. Gli inglesi odiano l’irrazionale. Dunque, c’è audience, e c’è una certa fame per questo tipo di discorso.

Sei ancora alla ricerca di materiali per il ciclo?

Si. E debbo fare tutto da solo. Sono un guerriero solitario.

Non hai dunque un team?

No, ingaggio dei ricercatori a tempo determinato. Prendi ad esempio Angelo’s Filmje (Il film di Angelo). Non potevo studiare la storia greca, perché è troppo costoso avere dei buoni ricercatori per un lungo periodo. Li puoi pagare per non più di due settimane.

Con Angelo’s Filmje sei uscito dai confini ungheresi, confrontandoti con una altro background storico.

E’ stato molto difficile, perché nessuno può davvero capire tutto a livello di simboli e allusioni metafisiche. La cultura ha un’esistenza simbolica. Questo è il vero problema. Si può imparare una serie di cose attraverso i libri e lo studio, ma non si può arrivare a comprendere del tutto l’uso simbolico della cultura. C’è dunque sempre una certa paura. Conoscevo gli elementi di base della cultura greca, molto macho, autoritaria, mistica, mi sono documentato sulla sanguinosa guerra civile, una costante dai tempi in cui arrivò là lord Byron, nel 1825. I Greci sono bianco o nero, aut-aut, e capire la personalità di Angelo era la chiave di tutto il problema. Angelo ha un ruolo nella Storia e il suo personale atteggiamento è pieno d’odio verso i comunisti, perché era sostenitore di Metaxa, era monarchico. Così, capire qualcosa dell’altra parte del fiume, l’altra parte politica, era per me la chiave immediata della storia greca. Io non sono uno scrittore realista, ma lui è il mio eroe, voglio capire quali sono le sue motivazioni. D’altronde, credo di aver capito qualcosa di questo eroe chè è insieme positivo e negativo. E’ un patriota ma è un sostenitore di Metaxa, è un eroe ma gli piace il re, e in Grecia l’intellighentsia è di sinistra.

Conosci l’opera di Gianikian-Ricci Lucchi?

Conosco i loro film. Credo che abbiano cominciato un po’ prima di me. Hanno un rispetto del tutto comprensibile nei confronti del materiale, perciò lo hanno riportato su pellicola. Io non ho mai avuto abbastanza soldi per farlo. Questa è una delle differenze. In secondo luogo, il mio ruolo è un po’ diverso, perché loro lo fanno vedere come a una mostra, io come in un'opera. Ma la motivazione è piuttosto vicina: guarda cosa ho trovato! Nel modo di contestualizzare, però, abbiamo idee differenti.

Continui a lavorare negli USA?

Faccio un corso al Getty Research Institute, ho fatto una video-installazione al suo interno, a partire da A Dunai Exodus. E’ una storia interattiva su cinque schermi. E’ in DVD, così uno può scegliere quale storia attraversare. Non si tratta dunque di un percorso lineare. La musica è ovviamente di Tibor Szemzo.

Progetti?

Sto lavorando al ritratto del vescovo calvinista che si vede in Bibo, il suocero del protagonista, una figura molto controversa. Il progetto nasce dalla stessa collezione di famiglia nella quale ho trovato il materiale per Bibo. E’ stato molto più difficile realizzarlo, perché il vescovo ha avuto un ruolo molto controverso nell’Ungheria d’anteguerra. Mentre Istvan Bibo era un radicale-liberale, né a destra né a sinistra, il vescovo era un conservatore. Un altro film avrà come soggetto la guerra civile spagnola, vista da entrambi i fronti.


Budapest, 3 febbraio 2002

Vissza a lap tetejére